Ecoansia: istruzioni d’uso

Quanto spesso si sente parlare di cambiamento climatico? E cosa proviamo quando se ne parla? In uno studio condotto da The Lancet nel 2021 su un campione di 10.000 persone tra i 15 e i 25 anni emerge che il 59% dei partecipanti ha affermato di essere “molto o estremamente preoccupato per il cambiamento climatico”. Quando si parla di ecoansia, gli scettici sminuiscono riferendosi ad esagerazioni o conseguenze dell’allarmismo creato dagli attivisti climatici. Cerchiamo, quindi, di definire insieme questa nuova forma di ansia sempre più diffusa ricorrendo ai recenti studi della psicologia ambientale, così come strategie per gestirla e trasformarla in azione.

Cos’è l’ecoansia

La comunità scientifica definisce l’ecoansia come “la paura cronica di disastri o calamità legati al clima”. Distinguiamo l’ecoansia dalla preoccupazione generica per il cambiamento climatico in questi termini: mentre la seconda è un’emozione che prepara al pericolo per trovare potenziali soluzioni, funzionando a tratti come motivatrice, l’ecoansia, così come l’ansia in senso stretto, può diventare debilitante. Infatti, essa può presentarsi insieme ad altre emozioni, come il senso di colpa, la rabbia, la paura, etc.

La condizione di ansia può essere generata da diverse fonti: 

  • da un impatto diretto con un evento meteorologico estremo;
  • da un impatto indiretto, nei casi di conseguenze del clima sul tessuto socio-economico di una popolazione;
  • da un impatto vicario, ovvero generato dall’ascolto delle testimonianze o del dolore di altre persone. In passato si manifestava solo in coloro che studiavano il cambiamento climatico, mentre ad oggi, con l’esposizione mediatica e la crescente consapevolezza, può influire anche sulla popolazione generale.

Ecoansia e legame con l’ambiente

Tuttavia, deve essere tenuto in considerazione che vi sono delle popolazioni necessariamente più vulnerabili agli effetti, in termini di salute mentale, del cambiamento climatico. Pensiamo ad esempio alla popolazione indigena degli Inuit in Canada; per questa popolazione la terra è tutto, sia a livello identitario che nella dimensione della salute mentale. Alcune ricerche hanno infatti mostrato come queste popolazioni presentino, ad esempio, reazioni emotive più robuste del normale, un maggiore utilizzo di alcol e droghe collegato al decrescere di attività all’aria aperta o la riduzione del senso di autoefficacia (ovvero un costrutto che in psicologia indica la percezione di efficacia che ognuno ha rispetto alle proprie capacità) a causa del crescente timore di perdere il controllo delle proprie tradizioni, che passano attraverso il contatto con la natura.

Figura 1 : Mappa delle regioni Nunavut e Nunavik dal sito Canadian Geographic (Fonte: ITK.CA)

Gli effetti sulla salute mentale del cambiamento climatico sono evidenti; eppure, la comunità scientifica fa attenzione sul rischio di medicalizzare e patologizzare l’ecoansia, cioè a definirla come un disturbo mentale, soprattutto perché sono state condotte ancora poche ricerche in merito. In generale, comunque, si potrebbe parlare di ecoansia “sana”, che muove all’azione, di cui si è parlato precedentemente, e di ecoansia “patologica”, che paralizza il soggetto in una costellazione di sentimenti di impotenza.

Figura 3: Cartello sull’ecoansia ad una manifestazione per il cambiamento climatico. (Fonte: tempi.it)

Strategie per gestire l’ecoansia

Gli sforzi per mitigare il cambiamento climatico sono diretti al benessere della società, ma questo impegno può di per sé avere effetti positivi sulla salute mentale delle persone che lo compiono. L’ecoansia “positiva” spinge quindi ad atteggiamenti pro-ambiente, così come a maggiore coinvolgimento in azioni collettive; questi atteggiamenti e comportamenti promuovono senso di controllo e di sicurezza in coloro che “soffrono” di ecoansia (tra virgolette perché, come già specificato, non si vuole medicalizzare una condizione ancora non ben definita dalla comunità scientifica). Un’intervista fatta a Lowe e Leiserowitz per una rubrica dell’Università di Yale chiamata Yale sustainability, infatti, ha notato che le azioni individuali messe in atto dalle persone per attenuare l’eco-ansia, come ad esempio riciclare, non la placano allo stesso modo rispetto a quando si intraprendono azioni collettive.

Di conseguenza, si deve sottolineare l’importanza dell’empowerment: incoraggiare le persone che stanno vivendo l’ansia climatica a impegnarsi in azioni collettive può promuovere il senso di autoefficacia e di competenza. Diversi studi hanno infatti mostrato correlazioni positive tra benessere e azione ambientale; se percepiamo la minaccia del cambiamento climatico come grave, mostriamo una ridotta angoscia e meno sintomi depressivi quando siamo coinvolti in comportamenti pro-ambientali. Oltre ad aumentare l’autoefficacia, l’impegno sociale pro-ambiente può favorire legami e relazioni che possono essere fonte di emozioni positive e resilienza. Tuttavia, l’impegno e l’attivismo potrebbero essere efficaci per alcune persone, ma non per altre, che, angosciate dall’ansia climatica, si impegnano in un’eccessiva ruminazione sulle loro preoccupazioni ed emozioni negative. In questo caso potrebbe essere proficuo distanziarsi dall’argomento, ad esempio fruendo consapevolmente delle notizie provenienti dai media sul tema, eventualmente riducendole, oppure concentrandosi su questioni più immediate e trovando fonti alternative di attività e significato.

Conclusione

In qualunque di questi casi, comunque, se senti che l’ansia legata al cambiamento climatico stia condizionando le tue abitudini quotidiane e la conduzione di uno stile di vita sereno, potrebbe essere utile che tu ti rivolga a un servizio di supporto psicologico o psicoterapico.

Alessia Giuca

Abbiamo stimolato la tua curiosità? Puoi saperne di più consultando le nostre fonti:

Avatar admin